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Nobuyoshi Araki: una mostra fotografica
Ad
un voyeur come chi scrive non sfuggi' la comparsa delle
foto di Araki sulle pagine delle riviste italiane. Lo
ospitarono per primi, si dica a loro merito, i mensili
femminili di alto bordo: non paia strano, le redattrici si
compiacevano evidentemente dell'esotismo dello sguardo del
giapponese sul corpo della donna. Nome semplice, poi,
Araki, rimaneva subito impresso e la combinazione
nome-cognome Nobuyoshi Araki, andava a infoltire la mia
collezione di appellativi da Sol Levante (Tadashi Dayu, Ataru
Moroboshi e cosú via) in gran parte frutto di tanti
pomeriggi di ragazzetto davanti alla tivvu'. Vidi poi i
suoi gatti e i molti interni scattati con la crudezza di
un flash da macchinetta usa e getta e ci rimasi male.
Pensai alla solita moda minimalista che pur dibattendosi in una
sofferta agonia, sapeva ancora proporre cartoline di
inutili e frequentatissimi luoghi comuni di algida
vuotezza. Poi usci' il volumone delle sue Mille Foto di
Tokio, di quegli Editoracci che titillano il peggio del
guardone con libretti che rimangono mangiucchiati da mani
curiose sugli scaffali della sezione foto delle librerie
del centro. Lo sfogliai anch'io come tanti altri e lo
trovai bellissimo. Un tripudio di profili urbani, nuvole e
cieli vuoti, prospettive di vialoni giapponesi pieni di
fumi e di auto e soprattutto i tantissimi scatti di sesso.
C'era tutto: donne nude, feticismi, orge, legacci di
cuoio e bende, puttane, night-club, i vieti
paradigmi della geisha declinati in infinite variazioni
accanto ai modelli di adolescenti porcelle che mostrano il
baluginio delle mutandine bianche sotto gonnelline corte
da collegiale. Manga e Hokusai, Hiroshima e le Kawasaki,
il monte Fuji e Godzilla: c'era tutto il bello del
Giappone traguardato attraverso la forbice di gambe delle
donne asiatiche. Sono stato felice della mostra al Museo
Pecci di Prato e mi sono recato all'inaugurazione il 16 aprile
pieno di aspettative. Non sono stato deluso: la mostra è
bella ed emozionante. Ho avuto per guida una amica,
allestitrice insieme ad altri, che mi ha spiegato come la
presentazione dello sterminato materiale esposto, migliaia
di foto, ricalchi altre esposizioni fatte dall'Autore in
Giappone. Si è voluto cosi', nella prima uscita del già
famoso Fotografo dalla madrepatria, cercare di organizzare
il viaggio di chi guarda come se si fosse accompagnati per
mano da chi ha realizzato gli scatti. Con dei limiti,
tristissimi, che i responsabili del Museo si sono posti:
dal novero sono state espunti i nudi di bimbetta, le foto più
crude di penetrazioni impossibili, e quanto, con formula
abusata, "potesse colpire la sensibilità di chi guarda". Fa
un po' rabbia all'inizio, ma dopo poco si è già
diventati un tutt'uno con la parete in una battaglia
contro la fatica e la fantasia soffermandosi ora su
un'immagine, ora su di un'altra. All'ingresso, pannellato
di una autocaricatura estemporanea, ci sono grandi foto
della prima sezione: Fiori. Fiori colorati che non si fa
fatica a interpretare metafora di sessi femminili,
spalancati e madidi di rugiade o chiusi e serrati
gelosamente. Dunque le grandi pareti della seconda serie
Tokio Life: immagini in bianco e nero della Città e dei
suoi abitanti. Strade, palazzi, casine basse, fanno da
contenitore a mille situazioni diverse di amanti, nudi,
provocazioni, profferte sessuali, gatti ancora metafora
della donna, in bianchi e neri perfetti che incantano e
lasciano smarriti, spersi. La foto è come dovrebbe essere,
umile supporto di carta argentata di istanti ed emozioni:
non si fa fatica a capire la smania di Araki e questo,
quando ancora la complessità pare essere a molti sinonimo
di profondità, rassicura piacevolmente. L'autore gioca con
le geometrie maschie e diritte delle architetture e le
curve sinuose delle ragazze e degli animaletti in un
crescendo di formati, dal 13x18 al 30x40. Ci si perda
pure, cercare un filo è come girare le città d'arte con la
cartina in mano: lasciamolo agli aridi. Si apre poi il
monumentale spazio romboidale dove sono esposte tantissime
Polaroid a formare geometrie di quadrati: la foto si
smaterializza in una iridescenza di mille squame e
conviene senza dubbio disporsi a rimanere abbagliati.
Attenzione: chi non ha una macchina a sviluppo istantaneo,
dopo non potrà fare a meno di acquistarla. Ci si
interrompe con una sezione video che ci mostra, meglio
che in qualsiasi catalogo, l'Artista al lavoro in
occasioni di ripresa degli ultimi 10 anni. Resistere ai
tempi un po' lenti premia l'appassionato: l'autore si
muove sui set e negli esterni in modo fascinoso e non
consueto, giocando con la natura, le modelle e gli
assistenti, spesso sorridendo come un bimbo felice.
Le foto realizzate a Prato e Firenze da Araki nel suo soggiorno
toscano, appena prima della mostra, sono state esposte di
seguito. Rendono irripetibile l'evento e cercano di sedare
una curiosità tra le più radicate che l'occidentale ha a
proposito del Giapponese: ma cosa mai fotograferanno così
tanto? Qui, tra l'altro, c'è una possibile risposta.
Chiude il percorso espositivo la raccolta Sentimental
Journey che da il titolo all'intera mostra consegnando in
una serie di fotografie il racconto personale, intimo,
delicatissimo e commovente della storia d'amore fra Araki
e sua moglie, fino all'epilogo drammatico del loro
rapporto.
Gianluca
Mengozzi
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