L'ANTITESI DELL'ATLETA: Garrincha.
L'allegria della gente.
Così era conosciuto in Brasile Manuel Francisco dos Santos detto Manè, oppure per tutto il mondo del calcio "Garrincha", l'uccellino smarrito, il passerotto malato. Morto il 20 gennaio 1983 all'ospedale neurologico Alto Boavista di Rio de Janeiro. Grasso, solo e in miseria. Dicono che con la testa non ci fosse mai stato.
Poliomielitico, nato nel cuore dell'amazzonica, iniziò ad inseguire zoppicante un pallone, per poi divenire un calciatore, per fare della sua finta sbilenca il gesto che lo porterà nella nazionale brasiliana, vincendo mondiali, e regalando miracoli e perle a Didi, Vava e Pelé (che nel calcio equivalgono ad invitanti palloni crossati dalla fascia destra).
Non c'è stato ricordo più bello per i brasiliani di un assist o di una finta di uno dei più grandi campioni che il calcio abbia mai conosciuto. Tempi quelli in cui un goal significa l'ebbrezza e la gioia di un riscatto sociale, l'illusione di uscire per un attimo da una realtà di miseria come raccontava il poeta e cantautore Vinicius de Moraes:1
O anjo das pernas tortas (L'angelo dalle gambe storte):
Felice tra i suoi piedi alati!/In un solo slancio rapita la folla pentita/ In un atto di morte si innalza e grida/Il suo unanime canto di speranza/Garrincha, l'angelo, l'ascolta e risponde/Gool!/E' pura danza.
O ancora:
'La rivoluzione sociale in marcia si ferma meravigliata a vedere il signor Manè palleggiare e poi prosegue il cammino'
Era proprio dal suo cervello un po' "malato" che partiva quella celebre finta. Non dal cuore, né dalla miseria, o dalla povertà, né tanto meno dal suo fisico che perfetto non era, visto che la natura con lui non era stata generosa, come lo é in genere con chi arriva grazie allo sport sul podio del mondo. Eppure il terzino che doveva affrontare Mané aveva subito il destino segnato; finta a sinistra e poi un lampo velocissimo verso destra.
Tra i calciatori c'é chi é nato ricco e chi povero, chi andava al campo accompagnato dal taxi, chi il campo lo aveva sotto casa, chi prendeva l'autobus e si faceva due ore di viaggio, chi ci andava a piedi o correndo, e magari arrivava in ritardo, cosicché il mister gli faceva fare altri cinque giri di campo. Garrincha era uno di quelli fortunati, che il campo lo avevano sotto casa: "Quei due alberi li sono una porta, il pallone va fuori quando entra nel pollaio".
Di solito i campioni poveri rimangono simpatici perché ogni ragazzo ha iniziato a tirare calci ad un pallone sotto casa sua, nel cortile, con le scarpe un po' rotte, i calzettoni comprati alle bancarelle del mercato, il pallone che una volta va a finire sull'autostrada, una volta te lo porta via il vicino perché si è incazzato.
Da qualche parte ho letto che il campionato che si gioca sotto casa o a scuola è il campionato della serie Z, e io per esempio ne ho fatti parecchi di campionati di quel tipo; ormai da veterano conto i tanti gol che ho alle spalle, e gli anni che mi mancano per appendere le scarpette; ho iniziato a scuola, alle elementari, durante le interminabili ricreazioni. Ogni classe aveva la sua squadra, ed il pallone a volte era una piccola pallina di gomma piuma, (quando andava bene) o se no un appallottamento di nastro isolante e carta, che comunque regalava grosse gioie. Un anno io quel campionato lì l'ho vinto, e mi ricordo i festeggiamenti: giro della scuola con tanto di trofeo fittizio in trionfo condito di urla e di gioia. Mi ricordo che la direttrice sospese quei campionati scolastici di serie Z per la troppa confusione che il calcio procurava durante la ricreazione: fu così che iniziarono in terza elementare, i tornei di boxe.
Garrincha è forse morto nell'anno in cui la mia classe vinceva il campionato. Io ero un bambino appena laureato campione del mondo di serie Z, e lui moriva, o se preferite andava da dio. Il dio del calcio naturalmente.
Il dio del calcio.
C'è un dio che esiste davvero. E' bello, e vola per il mondo con un paio di assistenti maldestri. Nessuno sa bene se sia buono o cattivo, generoso o crudele, ingannatore o sincero; a volte è uno spaccone presuntuoso, a volte un umile faticatore. Nessuno ha dubbi sul fatto che egli sia un dio esistente: svolazza generalmente tra stadi bellissimi, durante partite grandiose e giocatori abilissimi, dispensando polvere magica che crea giocate meravigliose, dribbling e colpi di tacco inaspettati. In quegli stadi, migliaia di persone praticano il loro culto religioso, urlano, si disperano, pregano ed esultano. Ma capita che spostandosi da stadio a stadio, il dio del calcio, attraversi periferie cittadine, campi di calcio amatoriali, o si imbatta in campetti improvvisati o cortili; a volte l'assistente maldestro non ha chiuso bene uno dei sacchetti di polvere magica, e la polvere cade giù, dove non doveva cadere, cosicché il giocatore improvvisato, l'antitesi dell'atleta, lascia partire un tiro al volo che lascia tutti di sasso, od un colpo di testa bellissimo che s'infila nel set, oppure il portiere del condominio, promosso per quel giorno portiere della sua squadra, vola levando un pallone che era già dentro.
Forse il dio del calcio è un dio un po' ingiusto, o forse si vuole solo divertire: solo nel calcio un atleta esile può sconfigge un gigante, solo nel mondo del calcio, può nascere un mulatto brasiliano poliomielitico, che impara una sola finta e diventa per due volte campione del mondo, mito ed eroe di un popolo.
COS'E' LA FINTA DI GARRINCHA
G.Brera in un articolo del 1989 di repubblica la descrive cosi:
Imparò una sola finta, fulminea, nel dribbling di partenza: fingeva di avviarsi con il piede sinistro: scambiava rabbiosamente il sinistro con il destro evitando il tackle avversario, poi comodamente avanzava verso il cross. Ai mondiali '58 dominava il modulo WM: saltando l'avversario diretto il gioco era fatto: qualcuno accorreva dall'area abbandonando Vavà o Pelé: il passaggio di Garrincha era così invitante che chiunque sarebbe riuscito a trasformarlo in goal.
Ci sono artisti di strada, attori e saltimbanco, che sono bravissimi a sfruttare quelli che sono gli inconvenienti dell'esibirsi in luogo ostico, trasformando le difficoltà incontrate in una invenzione geniale, che fa entusiasmare il pubblico; l'ostacolo una volta percepito viene utilizzato e raggirato senza eccessivi pensieri, il corpo realizza in un istante la prima cosa che passa per la mente; un vero e proprio dribbling.
Manè Garrincha il suo primo dribbling lo ha rifilato a mamma natura, sfruttando in qualche modo i difetti di un fisico che non lo rendevano bello con le gambe e con i muscoli perfetti come quelli di Pelé. La sua finta costringeva i suoi avversarsi a inchinarsi e a sedersi, poiché egli fingeva di avviarsi con la gamba malconcia, sfruttava l'andatura claudicante per poi scattare velocemente dall'altra parte. Una sorta di sdoppiamento che non dava tempo al malcapitato terzino di rendersi conto di ciò che poteva essere successo. Il bisogno era di "saltare" l'avversario, anche a discapito dell'utilità del gioco, il che significa cercarsi in qualche modo l'ostacolo, non per masochismo o per dimostrazione di forza: Garrincha, prima di arrivare in zona tiro cercava la strada più difficile, quella piena di giocatori da affrontare, poiché egli aveva bisogno del suo dribbling, come e più degli spettatori che sulle tribune dello stadio lo applaudivano. In un dribbling non c'è mai miseria, non c'è tempo, non c'è malattia, non c'è morte.
Nel calcio, si usano le membra primordiali, le gambe ed i piedi, ciò che sta sotto la testa e che non si è specializzato come invece hanno fatto gli arti superiori, le mani , le quali rispondono ai comandi certi del nostro cervello. Nei piedi c'è ancora qualcosa di imprevisto e d'impacciato, qualcosa di animalesco, che non risponde pienamente all'evoluzione umana, ma che è invece guidato da un impulso diverso, dall'emozione e dall'istinto.
Le gambe di Garrincha erano imperfette, animalesche e istintive, cosi com'era il suo dribbling: animalesco istintivo imperfetto e sublime. Sintesi di velocità e di purezza.
Tra Manè e il terzino che lo sfidava non c'era duello più goffo; il gigante contro il malato, il gatto contro il passerotto, duello dove la preda aveva sempre la meglio ed il gigante ne usciva mortificato: superare l'avversario senza viltà, ma dribblarlo, lasciarlo secco, scappare, non farsi prendere, andare via in velocità da una parte, dopo aver finto di scappare dall'altra. La cosa più bella che il calcio può regalare è proprio questo scontro mortale e folgorante, che dura un attimo ma si estende a lungo e nel tempo, nei ricordi e nei sogni di chi i dribbling proverà a farli, senza riuscirci mai.
Cataldo Russo
1 Come racconta D.Pastorin. Ode a Manè, Limina, Roma, 1998.