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 "RILETTURE"

 

La presente rubrica si propone di dare un'esposizione contestualizzata di un particolare problema filosofico, attraverso la rilettura di un articolo, saggio, o libro particolarmente influente e  ricco di sviluppi per l'argomento in questione. Essa non vuole (ne' potrebbe) essere in alcun modo esaustiva degli argomenti trattati; cio' che qui intendiamo offrire e' semplicemente uno strumento che consenta al lettore di approfondire una tematica filosofica eminente. A tale scopo includiamo una breve bibliografia ragionata al termine della  presentazione.

 

Verita' e paradossi: una rilettura dell'Outline di Kripke

 

A cura di Alessandro Becchi e Fulvio Guatelli

L'ambito di ricerca che intendiamo porre all'attenzione del  lettore concerne la questione della definibilita' della verita' - che cosa  significa che qualcosa e' vero? - tralasciando il problema epistemologico  del criterio della verita': come conosciamo che qualcosa e' vero? La  verita' sara' considerata in questa sede nella sua accezione semantica  ( vero come predicato di enunciati, proposizioni, o proferimenti), e  non nell'accezione ontologica che tale concetto ha assunto tanto in gran  parte della storia della filosofia, quanto nel linguaggio naturale  ( vero come sinonimo di reale, autentico).

Alfred Tarski, nel saggio The Concept of Truth in Formalized  Languages, ha elaborato una teoria del predicato vero non  contraddittoria ( formalmente corretta) e capace di catturare una  caratteristica semantica fondamentale del concetto intuitivo di verita':  il fatto, cioe', che l'asserire la verita' di un enunciato equivale ad  asserire l'enunciato stesso ( materialmente adeguata). Duplice era  l'obiettivo di Tarski, il primo, legittimare le nozioni semantiche  all'interno di una concezione scientifica del mondo stando alla quale  la nozione di verita' appariva sospetta di metafisica: a tale proposito  egli mostro' come ridurre tale nozione a concetti logico-matematici; il  secondo, eliminare i paradossi semantici. A questo proposito Tarski ha  mostrato [Teorema di Tarski, 1933] che non puo' esistere un linguaggio  interpretato L tale che:

 (i) sia semanticamente chiuso, ossia contenga un nome per ogni suo  enunciato, un predicato vero-in-L per enunciati, e disponga di risorse  sintattiche sufficienti a innescare il meccanismo dell'autoriferimento:  cioe' sia in grado di formulare almeno un'istanza del mentitore;  (ii) sia tale che il predicato vero-in-L soddisfi la condizione di  adeguatezza materiale: per ogni enunciato A di L, e per ogni A nome di  A, valga:  A e' vero-in-L se e solo se A;  (iii) valga la logica bivalente classica: ogni enunciato di L ha  uno e uno solo dei seguenti valori di verita', il vero e il falso.

Di fronte a questo fatto, la soluzione adottata da Tarski per definire   vero-in-L all'interno di una teoria consistente e' quella di rifiutare  (i), ossia escludere la possibilita' che L sia semanticamente chiuso. La  conseguenza di cio' consiste nel definire vero-in-L in un  metalinguaggio L1 piu' potente di L, ed eventualmente, definire   vero-in-L1 in un meta-metalinguaggio L2 piu' potente di L1, e cosi'  via; ne risulta una gerarchia (potenzialmente) infinita di linguaggi  nella quale, ad ogni livello, viene definita la verita' per gli enunciati  del livello precedente; cio' comporta la definizione di un diverso  predicato di verita' per ogni linguaggio oggetto considerato. In questo  contesto i paradossi semantici (mentitore) non risultano piu' esprimibili  in quanto sintatticamente scorretti.

Nel 1975 Saul Kripke, con la pubblicazione del saggio Outline of a  Theory of Truth, ha dato il via a un'ampia serie di ricerche su  possibili soluzioni non tarskiane ai paradossi semantici e su teorie  della verita' alternative. Alla base del lavoro di Kripke c'e' l'idea che  e' possibile costruire una teoria della verita' che (i) contiene un unico  predicato vero (applicabile ad enunciati contenenti il predicato  stesso) e (ii) nella quale i paradossi e gli enunciati infondati vengono  spiegati attraverso lacune di valore di verita' [truth-value gaps].

La diagnosi dei paradossi: partendo da un esempio paradigmatico  Kripke mostra che non c'e' un criterio intrinseco (generale) che ci metta  in grado di scartare - come insignificanti o mal formati - quegli  enunciati che portano a paradosso; l'enunciato "La maggior parte delle  asserzioni di Nixon sul Watergate sono false", chiaramente ben formato e significante, da' luogo a paradosso sotto determinate assunzioni (Kripke  ne fornisce un argomento nelle pp. 691-692). Risulta dunque che la  maggior parte delle nostre asserzioni ordinarie riguardo alla verita' / falsita' sono soggette - se le circostanze empiriche sono estremamente  sfavorevoli - ad esibire caratteristiche paradossali. Questa tesi  implica che l'analisi tarskiana dei paradossi non e' del tutto adeguata:  nel quadro della teoria di Tarski gli enunciati paradossali sono infatti  mal formati. Supponiamo che Dean asserisca (1) "Tutti i proferimenti di  Nixon sul Watergate sono falsi", mentre Nixon asserisce: (2) "Tutti i  proferimenti di Dean sul Watergate sono falsi". Chiaramente ognuno dei  due enunciati parla anche dell'altro; stando all'approccio tarskiano,  pero', risulta che cio' e' impossibile: infatti (i) se (1) e (2) sono sullo  stesso livello allora non possono parlare l'uno dell'altro (altrimenti  uno dei due sarebbe mal formato), e (ii) se sono su livelli diversi, il  piu' alto parlera' del piu' basso ma non viceversa, tradendo il significato  intuitivo dei due enunciati. Tuttavia, osserva Kripke, possiamo  assegnare valori di verita' [v.d.v.] non ambigui a (1) e (2), malgrado  parlino l'uno dell'altro, sotto opportune ipotesi empiriche (pp.  695-697).

Vi sono anche enunciati del tipo del veritiero: Questo enunciato  e' vero che, pur non portando a paradosso, non sono suscettibili di  valutazione e quindi sono infondati; Kripke caratterizza un enunciato  come fondato se il processo mediante cui lo valutiamo ci porta in ultima  analisi ad enunciati non contenenti il concetto di verita' (falsita'),  altrimenti infondato. Egli fa inoltre notare come, parallelamente al  concetto di paradossalita', la fondatezza e l'infondatezza non sono - in  generale - caratteristiche intrinseche di un enunciato, ma possono  dipendere dalle circostanze empiriche.

Descrizione informale della teoria: delle caratteristiche di L  (indicate nella diagnosi tarskiana) da cui scaturiscono i paradossi,  Kripke rifiuta il punto (iii), ossia la bivalenza; adotta quindi una  logica trivalente ( Kleene forte) che ammette, accanto al vero e al  falso, un terzo valore di verita', l'indeterminato. Dal momento che in  tale contesto la negazione di un enunciato indeterminato e'  indeterminata, l'istanza del mentitore riportata in nota 1 non risulta  piu' paradossale, poiche' se T(t) e' indeterminato, lo e' anche ¬T(t).  La teoria e' costruita mediante una gerarchia transfinita di  interpretazioni (modelli) del predicato vero, T(x). Al livello piu'  basso della gerarchia (M0) tale predicato e' completamente indefinito:  preso un qualsiasi enunciato (vero o falso che sia nell'interpretazione  standard del linguaggio L) non e' possibile asserire a questo livello la  sua verita' o falsita'. Passando al livello successivo (M1) il predicato vero assume come propria estensione l'insieme degli enunciati veri in  M0 e come anti-estensione l'insieme di quelli falsi in M0, con la  conseguenza che acquistano v.d.v. determinato nuovi enunciati  (operazione di salto kripkeano). Salendo nella gerarchia, il predicato  di verita' cresce sia in estensione sia in anti-estensione: in questo  modo sono sempre meno gli enunciati che restano con v.d.v.  indeterminato. Reiterando questo processo un numero sufficientemente  alto di volte (passaggio al transfinito), arriviamo al punto fisso  minimale M, in cui tutti gli enunciati suscettibili di valutazione  acquistano v.d.v. determinato; i soli enunciati che restano  indeterminati sono quelli infondati e quelli paradossali. Infatti nel  punto fisso minimale vale che: per ogni A di L, M soddisfa T(A) se e  solo se M soddisfa A, e M non soddisfa T(A) se e solo se M non  soddisfa A (condizione di adeguatezza meteriale); cio' significa che  tutti gli enunciati valutati veri / falsi nel punto fisso minimale  soddisfano la nozione intuitiva di fondatezza.  Fin qui la teoria non distingue ancora tra enunciati paradossali (es. il  mentitore) ed enunciati infondati non paradossali (es. il veritiero); si  possono costruire punti fissi non minimali che rendono via via veri / falsi un numero sempre piu' ampio di enunciati infondati non paradossali  senza che cio' renda la teoria inconsistente. Consideriamo ad esempio il  veritiero Questo enunciato e' vero e stabiliamo arbitrariamente il suo valore di verita', poniamo vero; supponiamo allora di iniziare la  gerarchia di interpretazioni di T(x) ponendo nella sua estensione tale  enunciato, per poi continuare nel modo canonico al passo; in modo del  tutto analogo al processo sopra descritto si raggiungera' il punto fisso  non minimale M tale che M soddisfa Questo enunciato e' vero. Tale punto fisso attribuisce cosi' v.d.v. ad un enunciato che nel punto fisso  minimale era indeterminato. Si puo' dimostrare che ogni punto fisso puo'  essere esteso ad un punto fisso massimale, vale a dire, un punto fisso  che non ha estensioni proprie che siano punti fissi. Un punto fisso  massimale assegna "tanti valori di verita' quanti se ne possono  assegnare", cioe' assegna un valore di verita' ad ogni enunciato infondato  non paradossale. Si giunge cosi' ad un tripartizione degli enunciati di L  relativamente ad una interpretazione di partenza di tutti gli enunciati  in cui non occorre vero:  (a) un enunciato e' fondato se e solo se e' valutato vero / falso nel  punto fisso minimale;  (b) un enunciato e' paradossale se e solo se non e' valutato vero /  falso in alcun punto fisso;  (c) un enunciato e' infondato non paradossale se e solo se e' valutato  vero / falso in almeno un punto fisso non minimale.  La teoria appena formulata da' conto del processo di apprendimento della  parola vero nel linguaggio naturale. L'apprendimento dell'uso del  predicato vero coinvolge sostanzialmente due capacita': (i) quella di  asserire che un enunciato e' vero esattamente nei casi in cui siamo  disposti ad asserire l'enunciato stesso (T-equivalenze); (ii) quella di  ridurre - attraverso la logica - enunciati in cui occorre il predicato   vero' a T-equivalenze (es. p. 701). In modo analogo, il livello M0  corrisponde alla fase in cui il soggetto non ha alcuna comprensione di  enunciati del tipo T( A): infatti a questo livello T( A) e'  indeterminato; al livello M1 l'interpretazione di T(x) e' costituita dai  nomi degli enunciati veri/falsi di M0, cioe' l'enunciato T( A') vale se vale A al livello M0 (T-equivalenze). Alla fine, quando il processo  diviene saturato il soggetto raggiunge il punto fisso M, ossia e' capace  di valutare qualsiasi enunciato suscettibile di valutazione; in altri  termini, egli ha afferrato la regola generale dell'uso del predicato   vero. Il piu' piccolo punto fisso M e' da un lato, il modello piu'  naturale per il nostro concetto intuitivo di verita', dall'altro, quello  generato dalle nostre istruzioni per l'apprendimento del predicato vero.

Meriti dell'Outline: Kripke ha dimostrato in modo rigoroso che  esistono linguaggi capaci di autoriferimento in grado di definire il  proprio predicato di verita'. Dando per buona la legittimita' della  caratteristica dell'autoriferimento, cio' fornisce una possibile  soluzione del dissidio manifestato dal Teorema di Tarski intorno a due  fondamentali intuizioni semantiche: il principio di bivalenza e il  criterio di adeguatezza materiale, dal momento che per gli enunciati  fondati - gli enunciati la cui valutazione soddisfa le nostre attese in  modo naturale - valgono entrambi.

Questo risultato, che deve i propri strumenti di attuazione in  modo significativo alle ricerche del decennio precedente, insieme  all'originalita' della tesi kripkeana della relativita' rispetto ad un  modello delle nozioni di enunciato fondato ed enunciato paradossale, e  quindi dell'assenza di un criterio generale - semantico o sintattico -  per discernerli, costituisce probabilmente il maggiore contributo a  quell'ambito della ricerca filosofica che vede nello studio dei  paradossi una via eminente, o addirittura privilegiata, alla  delucidazione dei principi che regolano la semantica ingenua. 

Bibliografia:

 S. A. Kripke, Outline of a Theory of Truth, in , 72 (1975), pp. 690-716;  ristampato in Martin, 1984, pp. 53-81; trad. it. in G. Franci (a cura  di), Esistenza e necessita', Firenze, Ponte alle Grazie, 1992, pp.  94-118.  R. L. Martin (a cura di), Recent Essays on Truth and the Liar Paradox,  London, New York, Oxford University Press, 1984.  P. Minari, La verita' e' definibile?, in , 83 (1992), pp. 77-103.  M. Sheard, A Guide to Truth Predicates in the Modern Era, in , 59  (1994), pp. 1032- 1054.  A. Visser, Semantics and the Liar Paradox, in D. Gabbay, F. Guenthner (a  cura di), Handbook of Philosophical Logic, Dordrecht, Reidel, 1989, vol.  IV, pp. 617-706.

Piu' ampi, completi e difficili:

 A. Gupta, N. Belnap, The Revision Theory of Truth, Cambridge (Mass.),  Mit Press, 1993.  V. Mcgee, Truth, Vagueness, and Paradox: An Essay on the Logic of Truth,  Indianapolis, Hackett, 1991.